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Storia della fotografia (2)

17 Maggio 2001
Sir John Herscel
Sir John Herschel con il berretto.
Immagine di Julia Margaret Cameron (1867).

Gli alogenuri d’argento

Fra le sostanze che subiscono alterazioni in presenza di luce, per noi riveste particolare importanza il nitrato d’argento, o meglio alcuni composti chimici derivati, chiamati alogenuri d’argento: il bromuro, il cloruro e lo ioduro. Alcune proprietà di questi sali erano già state notate nel XIII e XVII secolo, ma i primi esperimenti scientifici sul loro annerimento furono pubblicati nella metà del ‘700 da J. H. Schulze, da Giovanni Battista Beccaria e da J. Senebier. Di grande importanza ai fini della divulgazione fu il trattato “Aeris atque ignis examen chemicum” di K. W. Scheele, avvenuta ad Uppsala nel 1777, testo tradotto l’anno dopo in francese ed in inglese; in particolare Scheele aveva notato la velocità di annerimento del cloruro d’argento in presenza della frangia violetta della luce e che il prodotto annerito risultava insolubile in ammoniaca a differenza di quello che non era stato colpito dalla luce. Un’altra scoperta, a mio avviso determinante quanto la precedente ma a volte trascurata, è quella di sir John Herschel, scienziato poliedrico a cui la fotografia deve molto: una serie di fruttuose ricerche sulla sensibilità alla luce di varie sostanze, i termini negativo-positivo e la scoperta nel 1819 della capacità del tiosolfato di sodio di rendere solubili alcuni sali d’argento. Venti anni dopo egli scoprì che l’iposolfito (come erroneamente viene chiamato dai fotografi), interviene solo su quei sali che non sono anneriti in modo molto più efficace che non l’ammoniaca.


L’ annerimento diretto

Già alla fine del ‘700 Humphry Davy e Thomas Wedgwood, quest’ultimo figlio di quel Josiah fabbricante di porcellane che aveva dipinto un servizio da tavola per Caterina di Russia utilizzando una camera obscura, tentarono di ottenere delle immagini ponendo sul fondo della magica scatola dei fogli di carta impregnati di nitrato d’argento, ma i loro tentativi fallirono. Wedgwood riuscì invece ad ottenere delle silhouette per contatto: stendeva una soluzione di nitrato d’argento su carta o cuoio chiaro, vi appoggiava sopra degli oggetti opachi o disegni su vetro ed esponeva il tutto al sole; solo le zone colpite dalla luce scurivano, disegnando i contorni. Davy utilizzò il cloruro d’argento, più rapido, ma in entrambi i casi le immagini così ottenute potevano essere osservate solo per brevi periodi con luce debole, poiché anche le parti chiare finivano poi per annerire completamente: i due non avevano letto il trattato di Scheele.

Inventori della fotografia

All’inizio dell’ottocento le conoscenze scientifiche che avrebbero dato vita all’invenzione erano dunque disponibili: a quel punto alcuni personaggi poliedrici provenienti da esperienze diverse, ma accomunati dal desiderio di salvare in qualche modo le immagini che si formavano nella camera oscura, riuscirono a mettere a punto una serie di procedimenti fotografici.

La prima fotografia (Niépce) La prima immagine di Niépce.
La prima immagine di Niépce. La lastra di stagno misura 16,5 x 20 cm. ed è stata riscoperta nel 1952 da H. Gernsceim che l’ha datata 1826. © Gernsheim Collection, Harry Ransom Humanities Research Center, The University of Texas, Austin.

Gli storici hanno documentato due linee di ricerca, quella francese con Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833) e Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), e l’altra inglese con Henry William Fox Talbot (1800-1877), sebbene nel 1833, in Brasile, Hercule Florance avesse raggiunto risultati analoghi a quelli di Talbot, dei suoi esperimenti non si seppe nulla fino al 1877, quando ormai la fotografia aveva gia compiuto passi da gigante.
Niépce si interessava di litografia, ma non sapendo disegnare aveva pensato a delle sostanze fotosensibili per incidere le lastre; i primi esperimenti del 1816 sui sali d’argento non portarono a nulla di concreto, mentre qualche anno dopo scoprì il potere del bitume di Giudea di indurire con l’esposizione alla luce; egli ricopriva una lastra di peltro con questo tipo di asfalto e dopo avervi appoggiato sopra disegni o incisioni esponeva al sole, quindi asportava le parti non indurite sciogliendole con olio di lavanda e trementina. In seguito trattava le lastre con le tecniche proprie dell’incisione. Chiamò il procedimento eliografia. La sua prima fotografia stabile ottenuta con una camera oscura è datata 1826 ed è una vista della sua tenuta del Gras, presso Chalo^n-sur-Sao^n, scattata da una finestra dell’abitazione; l’esposizione fu di circa otto ore e ciò che ottenne fu un positivo: la trementina, asportando le parti non esposte (le ombre non riflettono luce), fece ricomparire il peltro sottostante, più scuro del bitume di Giudea indurito, che dunque descriveva le parti chiare.

Daguerre era un pittore famoso a Parigi e Londra per il diorama, una sorta di spettacolo in cui le immagini dipinte sulle due facce di uno schermo traslucido, sembravano cambiare a secondo che fossero illuminate di fronte o dal retro. Per dipingere gli schermi del diorama Daguerre aveva utilizzato anche la camera oscura, ma fu proprio nell’anno in cui Niépce ottenne la sua prima immagine che iniziò ad interessarsi di fotografia, probabilmente informato dai fratelli Chevalier dei progressi che si stavano ottenendo nella realizzazione automatica di immagini, anzi furono proprio i noti costruttori di apparecchi ottici a mettere in contatto i due nel 1829. Ne nacque un contratto di collaborazione: i due si sarebbero scambiati i progressi ottenuti, fino ad ottenere qualcosa di sfruttabile commercialmente, con ripartizione dei vantaggi. Nel frattempo Niépce aveva trovato che poteva rendere più scuro il fondo delle sue eliografie sostituendo il peltro con una lastra di rame placcata in argento e sottoposta poi a vapori di iodio (in pratica anneriva la lastra con uno degli alogenuri).

Il dagherrotipo

il dagherrotipo si impose subito come oggetto prezioso
un dagherrotipo

L’invenzione che rese famoso Daguerre, il dagherrotipo appunto, parte da qui: egli cominciò ad utilizzare lo ioduro d’argento come sostanza fotosensibile al posto del bitume di Giudea; come l’altro esponeva le lastre in una camera obscura, ma sia pur con esposizioni dalla lunghezza estenuante, non riusciva ad ottenere che pallide tracce, per di più evanescenti. Fu il chimico Jean-Baptiste Dumas a metterlo sulla buona strada rivelandogli l’esistenza dell’immagine latente e la possibilità dello sviluppo: la lastra brevemente esposta non presentava alcun segno di annerimento, ma la luce aveva comunque prodotto cambiamenti elettrochimici sugli alogenuri d’argento. La successiva fumigazione con vapori di mercurio generava quegli annerimenti che altrimenti avrebbero richiesto un’esposizione lunghissima. Lo stesso Dumas gli suggerì di fissare l’immagine così ottenuta immergendo la lastra in una soluzione di sale da cucina. I dagherrotipi sono immagini positive o negative, a seconda dell’angolo di riflessione della luce, rendono una sensazione di profondità particolare e sono un prodotto unico su un supporto prezioso, poiché per esigenze di stabilità nacque l’abitudine di virarli in oro; in genere sono di piccole dimensioni e per proteggerli all’epoca venivano messi sotto vetro in un astuccio: il borghese dell’epoca non poteva chiedere di meglio per tramandare la propria immagine (cosa possibile fino a quel momento a potenti o pochi ricchi in grado di pagare un pittore. L’immagine comunque risultava invertita specularmente, a meno che non si fosse usato un artificio ottico al momento dell’esposizione.

L’annuncio dell’invenzione venne dato dallo scienziato e deputato François Dominique Arago il 7 gennaio 1839 senza soffermarsi sul procedimento, ed ufficialmente nello stesso anno durante la seduta dell’Accademia delle Arti e delle Scienze del 19 agosto. La prima dimostrazione pubblica ebbe luogo a Parigi il 17 novembre; l’inventore rinunciò al brevetto cedendo il procedimento allo stato e la Francia del Secondo Impero ne fece graziosamente dono al mondo. L’operazione rese a Daguerre un vitalizio di 6.000 franchi l’anno mentre ad Isidore Niépce, subentrato nel famoso contratto alla morte del padre, ne toccarono 4.000. Sia le eliografie che i dagherrotipi sono immagini positive, cioè riproducono correttamente i valori della scena, chiaro ciò che è chiaro e scuro ciò che è scuro; non solo, il risultato finale è fisicamente la stessa lastra posta nella camera obscura, come accade per le diapositive, i materiali Polaroid ed i sensorri digitali (per quanto riguarda la risposta alla luce).


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